Testimonianze
di Travale

Travale

Travale, una piccola frazione di Montieri situata sulle Colline Metallifere, si presenta oggi come un borgo brullo e quieto, ma è grazie a un episodio del tutto fortuito che ha trovato un posto di rilievo nella storia linguistico-letteraria italiana. Questo evento si deve al lavoro di un notaio di Volterra del XII secolo, che, senza prevederlo, ci ha lasciato una preziosa testimonianza delle prime incursioni della lingua volgare nell’ambito notarile. Si rammenti come le prime attestazioni del volgare compaiano talvolta all’interno di atti ufficiali dell’epoca, una pratica che si inserisce in un contesto ancora ampiamente dominato dal latino. La documentazione dell’epoca ci mostra una prevalenza di formule standard in latino accanto a vocaboli e frasi volgari che emergono in modo sorprendente. L’integrazione tra latino e volgare si palesa in casi rari, ma quando accade risulta particolarmente significativa: è proprio questa alternanza, a volte inestricabile, a rappresentare una pietra miliare nell’evoluzione linguistica. In Italia, questa fase è cronologicamente posteriore rispetto ad altre aree romanze, come il gallo-romanzo o il castigliano, con un ritardo stimato di almeno un secolo.

Tra le più celebri testimonianze toscane del periodo si annovera la Postilla amiatina, un’annotazione in simil-volgare contenuta in un codice del 1087 conservato nell’Abbazia di San Salvatore sul monte Amiata, ma il caso delle testimonianze di Travale è altrettanto significativo. Siamo nel 1158, quando una disputa territoriale oppone il conte Ranieri di Ugolino Pannocchia al vescovo Galgano di Volterra per l’attribuzione di proprietà di alcuni casolari contesi tra la corte di Travale e quella di Gerfalco. In questo contesto, il giudice volterrano che redige il documento decide di alternare il latino con la lingua volgare, trascrivendo alcune frasi così come sono state pronunciate dagli uomini chiamati a testimoniare. Tra le testimonianze riportate, spiccano due episodi di particolare interesse. La prima testimonianza è quella di tale Eringolo, che sostiene il possesso del podere Montanina da parte della corte di Travale affermando di avere «preso pane e vino per li maccioni a Travale». Questa frase, scritta in volgare, è sorprendente non solo per la sua immediatezza, ma anche per l’utilizzo del termine “maccioni”, un gustoso termine vernacolare toscano utilizzato per indicare i muratori. Il suo inserimento in un testo prevalentemente latino rappresenta un raro esempio di commistione linguistica di straordinario valore storico.

La seconda testimonianza – più nota e decisamente più curiosa – è quella del cosiddetto lamento di Travale”. Questa frase è attribuita a un tale Malfredo di Casa Magi, che, stando al racconto del testimone Pietro detto Poghino, fu esentato dal servizio di guardia a Travale a seguito della sua singolare protesta: «Guaita guaita male, non mangiai ma mezo pane». Il resoconto completo, in latino con la citazione in volgare, recita:

«Pogkino, qui Petrus dicitur, […] a […] Ghisolfo audivit quod Malfredus fecit la guaita a Travale. Sero ascendit murum et dixit: Guaita, guaita male; non mangiai ma mezo pane. Et ob id remissum fuit sibi servitium, et amplius non tornò mai a far guaita, ut ab aliis audivit.»

«Poghino, il cui nome è Pietro, […] sentì dire da Ghisolfo che Malfredo fece la guardia a Travale. La sera [Malfredo] salì sul muro di cinta e disse: “Sentinella, fa’ male la guardia: non ho mangiato altro che mezzo pane”. E a causa di ciò gli fu condonato il servizio, e in seguito non tornò più a far la guardia, come ha sentito dire da altri.»

Questo episodio, così vividamente narrato, fornisce uno spaccato della vita quotidiana e delle modalità con cui l’umorismo e l’arguzia potevano influire su situazioni ufficiali, alleggerendo conflitti o ottenendo soluzioni vantaggiose. Malgrado la citazione della frase sembri meno immediata del termine “maccioni”, suggerisce un possibile legame con la tradizione orale, con tonalità che richiamano i canti delle sentinelle. L’importanza delle testimonianze di Travale va al di là dell’episodio contingente. Esse si collocano in un periodo di transizione culturale in cui il latino, fino ad allora lingua ufficiale e universale, comincia a lasciare spazio al volgare come strumento d’espressione delle realtà locali. Si tratta di una fase cruciale nello sviluppo della lingua italiana e delle altre lingue romanze: con il tempo, il volgare guadagnerà dignità letteraria e diventerà il veicolo principale della cultura.

La peculiarità del “lamento di Travale” risiede anche nel suo valore poetico implicito. Sebbene riportata come una frase contestuale, la struttura della lamentela e la sua musicalità richiamano quelli che in altre tradizioni sarebbero considerati esempi di letteratura orale. Questo elemento trova una possibile eco nei componimenti dei trovatori provenzali: in particolare, il riferimento al canto provenzale Gaita be, gaiteta del chastel, attribuito a Raimbaut de Vaqueiras e di diversi anni successivo, apre prospettive interessanti sulla natura transregionale delle influenze culturali di quell’epoca. Un altro aspetto che rende il documento straordinario è il suo contributo alla comprensione della vita quotidiana e delle dinamiche sociali. I dettagli sulle responsabilità militari, come la guardia a Travale, offrono uno spaccato di come le autorità locali gestissero la sicurezza e l’organizzazione dei piccoli centri. Inoltre, il privilegio ottenuto da Malfredo di essere esentato dalla guardia per via della sua arguzia suggerisce una certa flessibilità nel sistema, dove le consuetudini sociali e il rispetto delle tradizioni orali potevano influire persino sulle decisioni giuridiche. Le testimonianze di Travale, quindi, non rappresentano solo un documento linguistico, ma anche una finestra aperta su una società in trasformazione, in cui le voci dei singoli emergono con forza.

Le scritture avventizie del volgare italiano delle origini esercitano un fascino senza tempo, proprio per la loro capacità di catturare l’immediatezza e la freschezza del parlato popolare, restituendoci la voce del popolo. Si tratta di frammenti in cui le parole si staccano dai canoni ufficiali per farsi eco della vita quotidiana e delle emozioni spontanee, offrendoci una preziosa finestra sul passato. Questo incanto non ha lasciato indifferenti nemmeno figure iconiche come Pier Paolo Pasolini, che realizzò un componimento inedito scritto per essere musicato da Ennio Morricone. In quest’opera, dal titolo Caput Coctu Show, Pasolini intreccia frammenti della letteratura volgare delle origini – l’iscrizione di San Clemente, la Postilla amiatina e lo stesso lamento di Travale – per dare voce a un moderno “posteggiatore” di Roma, un suonatore ambulante. Un personaggio marginale che, attraverso quei versi antichi, ritrova dignità poetica e assume una dimensione universale.

E so pure Gkisolfolo di Travale…
Parlo un dialetto del Mali.
Ecco perché non mi capite!
Guaita, guaita male!
Er disco, a dottò!