Mario Pratesi nacque a Santa Fiora nel 1842. A seguito della morte precoce della madre venne avviato dal padre alla carriera militare, da cui si allontanò ben presto. Dopo essersi spostato per tutta la Toscana, avviò una carriera scolastica che lo portò a Viterbo, Terni, Milano, Pisa. In questo ambiente potè approfondire un repertorio di letture che prevedeva, accanto ai classici e allo studio di Dante, Ugo Foscolo, Giacomo Leopardi, Percy Shelley. Con la nomina a provveditore agli studi si trasferì a Belluno e poi a Firenze. Qui, sollevato dalle ristrettezze economiche e pur istupidito «dalla burocrazia» ebbe modo di ideare e pubblicare le sue opere più significative dove il rapporto tra letteratura provinciale e un realismo derivato da Manzoni diventeranno tendenze irrinunciabili. Dopo l’elaborazione di alcuni dei suoi titoli più celebri e meglio riusciti nel decennio compreso tra il 1890 e il 1900, Pratesi continua a scrivere prose di viaggio e numerosi racconti editi tra il 1905 e il 1920 nella Nuova Antologia, ma decidendo di vivere in parziale isolamento, semidimenticato dalla critica a lui coeva, decide di ritirarsi nella campagna fiorentina dove morì nel 1921.

Attraversando criticamente il naturalismo e gli autori toscani a lui contemporanei elaborò, nell’Eredità del 1889 o ne Il mondo di Dolcetta del 1894, una narrativa attenta alla rappresentazione dei conflitti sociali e capace di esprimere un sentimento tragico della vita. Lo sfondo di opere dove la cronaca di paese accompagna analisi storiche è spesso «l’aria cupa e funerea della Maremma, tra Val d’Orcia e Santa Fiora». Quello che Luigi Baldacci definì il «naturalismo fortemente chiaroscurato in netto contrasto col realismo moderato degli altri scrittori» sarà la cifra stilistica principale del lavoro di Pratesi che, nel «rifiuto dell’idillio arcadico» troverà la sua più propria dimensione. E mentre da una parte Grosseto ricorda all’autore la momentanea e parziale frequentazione di teatri e salotti di provincia, lì dove ad esempio per la prima volta «assiste alla rivelazione profonda della note verdiane», il paesaggio maremmano continuerà ad essere comunque motivo ispiratore. Per questo ne L’eredità la descrizione dell’abitato visibile da Poggio Sole ricorda alcuni aspetti dei paesaggi amiatini, «con le sue case decrepite (…), i campanili neri che suonano con sì grave lentezza le ore (…) i conventi nascosti presso le mura (…) e le mura viste che scendono e salgono tra gli ulivi per la varia pendenza dei campi». Paese che nella sua stinta presenza ricorda il tempo di «una vita battagliera e gentile (…) tutta chiusa tra i terrori della coscienza, e rapita in un ideale».

Allo stesso modo nei Ritratti d’Italia, opera successiva che raccoglie pezzi d’occasione e scritture a metà tra il resoconto di viaggio e la cronaca memoriale, la prosa dedicata al Monte Labbro diventa una “celebrazione“ indiretta degli anni giovanili passati all’Amiata: quel luogo «posto sull’orlo della maremma buia» dove s’apriva «l’oscurità profonda dei boschi immobili attraversati dalla via silenziosa». E ancora, secondo registri che mescolano sapientemente tono religioso e descrittivo lo sguardo dei territori familiari rivela, nello scontro continuo tra civiltà e natura, la predominanza di «quel verde intenso e diffuso dei boschi per la vasta montagna (…) che soltanto un mago o uno spirito invisibile» avrebbe potuto suscitare «dalle viscere della terra».
Ma qui, sempre seguendo le parole di Pratesi, proprio perché «la natura, come la fortuna, l’arte, la storia, ama i contrasti e non vuole la monotonia delle forme», la presenza di un monte ricco di sorgenti e ombre come l’Amiata non può non lasciare il passo a «un monte povero, tetro, nudo, rapato come il Calvario dipinto da certi trecentisti senesi nelle loro tavole austere!». Il ritratto perfeziona poi i suoi toni cupi e sentimentali quando sceglie di soffermarsi sul movimento inesausto del fiume Fiora, il «fiume natale, che andava a perdersi nel turchiniccio delle gole, tra altri monti pur nudi, e donde la maremma soffiava la sua tristezza». Nella profondità delle foreste amatine è stato veramente possibile, si chiede Pratesi, tra esplosione retorica e sincerità, «travolgere nella fatuità di un sogno presuntuoso e appassionato la fredda, venale, ringhiosa, scettica, inesorabile realtà dei fatti e degli interessi?». La risposta è destinata a perdersi nel tempo. L’ipotesi di riformazione spirituale e morale decade dal momento in cui l’esperienza personale rivela anche radici aspre e non solo sublimazioni ideali, perché l’autore, nella sincerità della confessione lirica, non dimentica che «Colà in maremma m’agguantava il male / E marcii nove mesi allo spedale»