Guido Piovene nacque a Vicenza nel 1907 in un contesto che già da subito delineava una complessità familiare ed esistenziale destinata a riflettersi nelle sue opere. Appartenente a due delle famiglie più illustri e aristocratiche del Veneto, i Piovene di Porto Godi e i Valmarana, la sua vita familiare fu tutt’altro che priva di ombre e contraddizioni. Piovene crebbe in un ambiente permeato da una solennità austera e distaccata, incarnata soprattutto dal nonno paterno, la cui figura autoritaria sembrava incarnare quella rigidità che Piovene in seguito rappresenterà come simbolo di un mondo ormai in decadenza. I genitori, per contro, vivevano immersi in un turbine di mondanità e distrazioni che li rendevano frequentemente assenti, contribuendo a creare nel giovane Guido un senso di solitudine e sradicamento che lo accompagnò per tutta la vita. Nonostante questi aspetti complessi, l’infanzia del futuro scrittore fu anche influenzata dal contatto diretto con i suggestivi paesaggi veneti e, in particolare, dalla villa Margherita, di proprietà della prozia Ersilia. Gli intricati legami familiari e il fascino della natura locale, dalle colline alla placida campagna, avrebbero in seguito esercitato un’influenza potente sui suoi lavori letterari, tanto nei temi quanto nell’ambientazione.

Nel 1925, Piovene si iscrisse alla facoltà di lettere presso la Regia Università di Milano, laureandosi nel 1929 con una tesi in estetica sotto la guida di Giuseppe Antonio Borgese. Parallelamente agli studi universitari, Piovene iniziò a cimentarsi nel giornalismo letterario. Dal 1926 scrisse per alcune riviste culturali e quotidiani, offrendo contributi che mettevano già in luce le sue doti di osservatore attento e raffinato. Il suo debutto narrativo ufficiale avvenne nel 1931 con la pubblicazione del racconto La vedova allegra, che ricevette un’accoglienza critica favorevole. Nel 1935 entrò a far parte della redazione del Corriere della sera, dove lavorò da corrispondente estero a Londra e a Parigi, curando anche in diverse occasioni la critica cinematografica del quotidiano, per il quale partecipò come inviato alla Mostra del cinema di Venezia. In questo periodo si avvicinò alle idee razziste e antisemite, collaborando con Telesio Interlandi, che gli costarono molte amicizie e che abiurò nel dopoguerra. Piovene raggiunse la vera notorietà con il romanzo Lettere di una novizia, pubblicato da Bompiani nel 1941. L’opera, destinata a diventare uno dei suoi più grandi successi, esplora temi profondamente radicati nella cultura italiana, quali il senso del peccato, la repressione e la tensione tra desiderio personale e imposizioni sociali. Tradotto in diverse lingue, venne adattato per il cinema nel 1960 da Alberto Lattuada, con Pascale Petit, Jean-Paul Belmondo e Massimo Girotti.
Con il dopoguerra, Piovene spostò il proprio interesse verso l’osservazione della società italiana in rapido cambiamento. Collaborò con La Stampa, focalizzando la propria attenzione su fenomeni di trasformazione economica, sociale e culturale. L’opera che meglio incarna questa fase del suo percorso è Viaggio in Italia(1957), un reportage straordinariamente dettagliato che offre una descrizione vivida del Paese del dopoguerra. Nel 1962 Piovene, ormai soprannominato ironicamente il «conte rosso» per le sue simpatie verso la sinistra, fu al centro di aspre polemiche per il suo passato antisemita. Le accuse mosse da Guido Ludovico Luzzatto e Ruggero Zangrandi riemersero con forza, specialmente dopo la pubblicazione del libro La coda di paglia (1962), in cui Piovene cercò di difendersi, affrontando con ambiguità questioni come fascismo, intellettuali e potere. Negli ultimi anni della sua vita, Piovene continuò a esplorare i grandi temi dell’esistenza, pubblicando romanzi di successo come Le furie (1963) e Le stelle fredde (1970), quest’ultimo insignito del premio Strega. Trasferitosi a Londra, vi morì nel 1974.

Uno dei capitoli di Viaggio in Italiaè dedicato alla Maremma, regione che negli anni Cinquanta era al centro di cambiamenti radicali dovuti all’attuazione della riforma fondiaria che stava ridisegnando la geografia delle campagne. Piovene offre un ritratto della Maremma che combina un’analisi storica ed economica con una riflessione poetica sui mutamenti paesaggistici e culturali. La riforma fondiaria, avviata nel 1951 con la costituzione dell’Ente per la colonizzazione della Maremma tosco-laziale, o semplicemente Ente Maremma, ha ridefinito il paesaggio locale attraverso la redistribuzione e razionalizzazione di oltre 90.000 ettari di latifondo, trasformando campi sterminati in poderi e appezzamenti da destinare agli agricoltori. C’è un prima e un dopo la riforma, non solo in merito alla storia economico-sociale del luogo, ma anche nella formazione di un forte immaginario locale, come messo in luce dallo stesso Piovene. La vecchia Maremma dei butteri, delle paludi, delle mandrie brade e dei briganti è ormai soltanto un lontano ricordo: eppure certe suggestioni non sono sparite del tutto, ma ancora permangono e danno vita a un immaginario ibrido, dove «le piccole case nuove della riforma agraria sembrano fuori dal paesaggio, quasi appoggiate al suolo come le case dei presepi».

Particolarmente emblematica è la tenuta della Marsiliana, che appare come un microcosmo delle metamorfosi della regione. Un tempo il più grande latifondo della Maremma, la Marsiliana fu sottoposta a un massiccio intervento di riforma che coinvolse tanto il paesaggio fisico quanto quello umano. L’intervento dell’Ente Maremma, con un investimento di due miliardi di lire, portò non solo allo smembramento della tenuta, ma anche alla costruzione di 300 case coloniche e un villaggio moderno ai piedi dell’ex castello dei principi Corsini. Da un lato, il castello, simbolo di una Maremma antica e quasi mitologica, appare sospeso in un limbo fuori dal tempo, lassù, «in cima a una altura, con il palazzo signorile nel mezzo. Tutto intorno sui vecchi muri splendono rose e buganville, si ritagliano il cactus e l’albero della banana, come in un paesaggio del Sud; partono uomini a cavallo, e scendono sul pendio coperto di noci e castagni». Dall’altro, il borgo moderno, con le sue strutture razionali, restituisce suggestioni del tutto diverse, rappresentando l’avvento di una nuova era di speranze e prospettive. Scrive infatti Piovene che «contemplando dall’oasi del borgo signorile la pianura disseminata di case nuove, tutte eguali, nel territorio privo d’ombre, si prova l’impressione di essere davanti a un deserto fecondato».
Il borgo di Marsiliana era uno dei tanti nuovi centri abitati che stavano sorgendo per volere dell’Ente Maremma, al fine di rispondere ai bisogni delle comunità locali. Questi insediamenti, di dimensioni contenute e architettura essenziale, fungevano da punto di riferimento per i poderi sparsi nella campagna, offrendo servizi indispensabili come uno spaccio, una chiesa e strutture per la vita comunitaria. Tra i progetti più rilevanti di quel periodo spicca la chiesa nuova di Marsiliana, dedicata a Santa Maria Regina del Mondo, realizzata dall’architetto Carlo Boccianti, figura emblematica nella progettazione di numerosi nuclei rurali dell’Ente Maremma. Tra le sue realizzazioni, oltre alla chiesa di Marsiliana, si annoverano il celebre “villaggio del bracciante” di Rispescia e altre località meno conosciute, ma non meno significative, come Pomonte e Borgo Santa Rita. Boccianti si occupò anche di sviluppare insediamenti più piccoli, come Polverosa e La Sgrilla, villaggi orbitanti intorno al centro di Marsiliana. Ogni villaggio aveva la sua chiesa, con un campanile semplice e moderno, elemento caratteristico di un’architettura contemporanea ben integrata nel paesaggio storico e rurale della Maremma, con uno sguardo innovativo rivolto al futuro.

Marsiliana, però, non è solo una testimonianza del rinnovamento del Novecento: la sua storia si intreccia profondamente con il passato più remoto, rendendola un luogo di straordinaria stratificazione storica. Il castello medievale di Marsiliana, che domina il borgo, fu un tempo un avamposto strategico della potente famiglia Aldobrandeschi, per poi passare alla nobile famiglia Corsini durante l’età moderna. Proprio nei terreni della vasta tenuta dei Corsini, nel 1908, il principe Tommaso Corsini compì una delle scoperte archeologiche più significative della zona. Fu rinvenuta infatti la necropoli della Banditella, risalente all’epoca etrusca orientalizzante, ovvero a un periodo compreso tra la fine dell’VIII e il VI secolo a.C. Questo sito portò alla luce reperti di straordinario valore, tra cui spiccano la Tavoletta di Marsiliana e la celebre fibula Corsini. La Tavoletta di Marsiliana, realizzata in avorio, rappresenta il documento scritto più antico in cui compare l’alfabeto etrusco, offrendo un’importante testimonianza della vita culturale dell’epoca. La fibula Corsini, invece, è un raffinato gioiello d’oro decorato con la sofisticata tecnica della granulazione, un esempio impressionante dell’abilità orafa degli Etruschi.
Questi ritrovamenti non sono che un tassello della ricchissima storia di Marsiliana, dove passato e presente si intrecciano in un connubio che attraversa i secoli. Dall’età etrusca, passando per le dominazioni medievali degli Aldobrandeschi, fino alla modernità della Marsiliana novecentesca, ogni epoca ha contribuito a definire l’identità del borgo. La Marsiliana moderna, nata per supportare le comunità rurali, non ha cancellato le tracce del passato, ma le ha inglobate in un mosaico culturale e storico unico: questo equilibrio tra innovazione e memoria la rende un simbolo della Maremma, una terra in cui la transizione tra passato e presente diventa un elemento distintivo di un patrimonio ancora vibrante e capace di raccontare storie che attraversano millenni.