Giuseppe
Pontiggia

Scansano

Giuseppe Pontiggia nasce nel 1934 e da subito sono evidenti due elementi tipici del suo carattere: la distanza dal conformismo e le dimensioni quasi colossali. Infatti, nasce per parto podalico e da neonato è già un gigante, pesa cinque chili e mezzo. Cresce in una famiglia sensibile all’arte e alle lettere: la madre casalinga conserva per tutta la vita una feroce passione per il teatro, lo zio della madre insegna all’Accademia di Brera, il cugino, Ezio Frigerio, diventerà sceneggiatore di fama internazionale, mentre il padre Ugo, funzionario del Banco Ambrosiano, cura in casa una ricca collezione di libri. Nel 1940 la libreria paterna diventa il rifugio momentaneo del piccolo Peppe, costretto in casa da una polmonite, e permette la nascita della sua relazione con la letteratura.

Per colpa delle cariche pubbliche da lui ricoperte, il 17 novembre 1943 due partigiani sparano e uccidono Ugo Pontiggia. L’assenza del padre sgretola le sicurezze economiche della famiglia, che si vede costretta a vendere gran parte della biblioteca paterna e a spostarsi da Erba a Como. Nel 1948 è la volta di un nuovo trasferimento, a Milano, dove il giovane Pontiggia frequenta il liceo classico Carducci; nello stesso periodo inizia a scrivere le prime poesie e compone saggi di traduzione in endecasillabi delle Metamorfosi di Ovidio. Sono questi anche gli anni in cui, grazie allo zio Dante, si innamora del mondo degli scacchi tanto da renderla una passione presente anche nei suoi scritti futuri.

Solo tre anni dopo, si diploma ancora diciasettenne e inizia subito a lavorare nella sede milanese del Credito Italiano per aiutare la famiglia. Nel 1953, nato per sfogare le accumulate insoddisfazioni lavorative, il dattiloscritto de La morte in banca è ormai pronto, e Pontiggia lo sottopone a Elio Vittorini che lo sprona a continuare gli studi umanistici nonostante il lavoro. Per la poesia si rivolge invece a Luciano Anceschi che gli consiglia di studiare Petrarca, da cui impara a “operare con poco per ottenere effetti straordinari”. Si iscrive alla facoltà di Lettere all’Università Cattolica di Milano che, grazie all’aiuto di amici quali Vanni Scheiwiller, riesce a continuare senza dover abbandonare il lavoro. Nel 1955 la sorella Elena non ancora ventenne si toglie la vita inspiegabilmente; alla madre viene per sempre nascosta l’intenzionalità del gesto, che sconvolge profondamente il giovane Giuseppe. La perdita della sorella lo sprona a intensificare il rapporto intellettuale col fratello Giampiero, chiamato il “compagno di viaggio alle Esperidi” e che si affermerà come uno dei maggiori poeti contemporanei sotto lo pseudonimo di Giampiero Neri.

Dopo anni d’attesa, il romanzo nato dall’esperienza biografica del lavoro, La morte in banca, viene pubblicato: esce nel 1959 nei quaderni della rivista milanese Il Verri e viene poi rielaborato per la pubblicazione con Mondadori del 1979. Entrato da giovane in contatto, oltre ad Anceschi, anche con Balestrini e Porta, negli anni Sessanta è vicino alla Neoavanguardia e collabora proprio alla rivista Il Verricon intellettuali e scrittori come Eco, Sanguineti, Giuliani, Arbasino e Manganelli. Nel 1961, oltre a iniziare la stesura del suo romanzo successivo, Peppe inaugura un nuovo capitolo della sua vita nella quale, sotto ulteriore consiglio di Vittorini, insegna letteratura nelle scuole serali di Milano; lascia questo impiego solamente nel 1978. Dalle esperienze fatte all’interno del circolo intellettuale legato a Il Verri deriva soprattutto L’arte della fuga, che esce per Adelphi nel 1968. È un testo sperimentale influenzato dalle teorie dell’antiromanzo del gruppo ’63, viene accolto positivamente dalla critica ma giudicato di difficile lettura e comprensione dal pubblico. Il testo infrange infatti le strutture tradizionali del romanzo come la coerenza spazio-temporale, l’intreccio e la consistenza dei personaggi.

Con la maturità, invece, Pontiggia recupera forme più tradizionali e realistiche e abbandona le posizioni estreme degli intellettuali raccolti intorno al Verri. Iniziano negli anni Sessanta le grandi collaborazioni con le più importanti case editrici italiane: grazie alla stima reciproca nata dall’eccellente revisione della traduzione e prefazione dell’opera di Lucano, Pontiggia coltiva l’amicizia con Luciano Foà e contribuisce in modo determinante a impostare la linea editoriale dei primi anni di Adelphi (uno fra tutti il suggerimento di pubblicazione delle opere di Guido Morselli) e scrive decine di commenti e introduzioni alle nuove uscite; dopo l’incontro con Vittorio Sereni, nel 1969 inizia la collaborazione con Mondadori, per cui cura i quattordici numeri de L’Almanacco dello Specchio e presso il quale caldeggia fortemente la pubblicazione di Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo (1975). Nel 1978 pubblica Giocatore invisibile in cui cerca di “trovare il punto di incontro tra semplicità e complessità, tra letterarietà e allegoria, tra visibile e occulto”, ispirandosi apertamente alla prosa del Dickens del Copperfield e del Pickwick. A partire dallo stesso anno, pur in una produzione non fittissima, emergono le opere più famose dell’autore, su tutte La grande sera, rielaborata poi nel 1995. Il romanzo esce inizialmente nel 1989 e vince il premio Strega di quell’anno. Quest’opera si presenta come un racconto di investigazione tra suicidi, sparizioni, lettere anonime e false piste. Ma la grande novità di Pontiggia sta nel non ricostruire la verità, non si arriva mai a una soluzione dell’intreccio, bensì a un ventaglio di possibilità dove permangono inquietudine e ambiguità, sfumatura che ripulisce l’opera dal facile accostamento col genere giallo e ne mette in risalto l’aspetto psicologico; il romanzo ha fin da subito due grandi ammiratori: Alberto Moravia e Valentino Bompiani.

In un rapporto di continua comunicazione con le sue opere, Pontiggia negli anni rivede e modifica spessissimo i suoi romanzi: nel 1990 esce per Adelphi una nuova versione dell’Arte della fugae l’anno dopo per Mondadori revisiona e ripubblica per la terza volta La morte in banca: un romanzo breve e sedici racconti. Col passare degli anni scrive nei più disparati ambiti, come il giornale di satira o il balletto, ma non dimentica la sua forma narrativa prediletta e nel settembre del 1993 pubblica il romanzo Vite di uomini non illustri, profondamente apprezzato da pubblico e critica. Degli ultimi anni è invece Nati due volte, pubblicato nel 2000, romanzo di grande successo che affronta il grande tema mai affrontato da Pontiggia nei suoi numerosissimi scritti e interventi, e che lo coinvolge personalmente nell’amore verso il figlio: la disabilità. Dopo anni di intensissimo lavoro in cui si è prodigato per la diffusione della cultura e la produzione di scritti e opere, il 27 giugno 2003 all’una di notte, dopo aver conversato a lungo con la moglie Lucia, si corica a letto e muore a causa di un collasso cardiocircolatorio.

Nato in Brianza e vissuto prevalentemente a Milano, Pontiggia non è legato direttamente alla Maremma se non per un singolo testo, un racconto che ha nel titolo uno dei prodotti che più caratterizzano il territorio: Il morellino. Non nuovo a testi che mettono in luce le bellezze agroalimentari dell’Italia – si ricordi il raccontino sul culatello raccolto in Prima persona (2002) –, Pontiggia racconta della scoperta del vino di Scansano bevuto quasi per caso in una vecchia osteria del grossetano. Precursore anche dal punto di vista enogastronomico, Pontiggia riconosce il primato al Morellino prima che questo venisse annoverato tra i vini DOCG, definizione entrata in vigore nel 2007. Il racconto dedicato a questo vino è rimasto inedito fino alla morte dell’autore, avvenuta nel 2003, ed è stato poi ripreso in un’antologia di prose brevi dedicata alla Maremma in cui compaiono autori come Antonio Franchini o Nadia Fusini: Tutti dicono Maremma Maremma. Venti scrittori italiani ne raccontano la terra, le persone, gli umori (Effigi, 2010).

In questo breve racconto Pontiggia parte da due elementi più che tipici in Italia: l’osteria e il vino; e da questi due compie una sottile indagine etica dell’individuo, delle sue scelte e delle ricadute di queste sul dialogo fra gli esseri umani. Scrittore con una grandissima cultura, come dimostra lo spropositato numero di libri che componeva la sua biblioteca, più di diecimila libri, si interroga spesso sul processo conoscitivo, di conseguenza sull’etica e sulle sue dirette estensioni, ovvero come soggettivamente ci chiediamo: è giusto o è sbagliato? Domanda che pervade ogni nostra scelta e ci impone una morale. Pontiggia sceglie di porre questi interrogativi in tensione costante con la verità, cancellando dalla sua letteratura le tentazioni manieristiche e formaliste. Perché la sua moralità, superata la fase de L’arte della fuga, messo in discussione per l’accoglienza fredda di pubblico e critica, si riflette sulla semplicità della parola che permette un dialogo sincero con il lettore e concede a quest’ultimo di non soffermarsi eccessivamente sul significante, ma di scendere in profondità verso le sfumature del significato. Daniela Marcheschi, nel volume de I Meridiani dedicato allo scrittore e da lei curato, scrive: “La ricerca di un’esperienza umana integrale e libera è articolata attraverso l’indomita responsabilità delle scelte, le mediazioni dell’intelligenza e l’estensione dei valori razionali, mentre più spesso il moralismo è rigida e ripetitiva affermazione di petizioni di principio.” Il Morellino è pregno del valore etico comunicativo della parola che tanto aveva portato Pontiggia alla riflessione; la narrazione è brevissima, i dettagli sono giusto sufficienti a comprendere i contorni della scena, e forse lo sono solo per noi italiani che abbiamo ben presenti molti ambienti simili a quello descritto, ma così intrisa di valore che provoca uno, e uno soltanto tra tutti i sentimenti che una cena in trattoria dovrebbe suscitare: la soddisfazione in un luogo lontano da casa di scoprire un elemento sconosciuto in mezzo a un contesto familiare e caloroso.

Il racconto altro non è che il breve ricordo di un’osteria grossetana in cui Pontiggia insieme a una compagnia andò a mangiare e l’oste di questo luogo, incapace di mentire riguardo i suoi prodotti, suggerisce loro soltanto i piatti migliori e non quelli che non hanno passato il vaglio di generazioni di tentativi. Alla fine dell’ordinazione, alla combriccola di Pontiggia viene chiesto il bere e questi, fiduciosi che qualsiasi cosa proveniente dell’osteria fosse eccellente, rispondono di volere il vino della casa, ma di nuovo, inesorabilmente onesto, il proprietario sorprendete i suoi ospiti suggerendo un vino diverso e più buono, coronamento dell’autenticità della serata: il Morellino di Scansano. Questo vino tipico della zona diviene l’oggetto massimo dello stupore dei membri della tavola e della lealtà del locandiere; nessuno obbliga il proprietario dell’osteria a dire la verità così come non ci sarà la possibilità di ritrovarlo e rincontrarlo in un futuro per lamentarsi della notte indigesta passata per colpa della sua cucina. L’atto di verità, che a noi lettori sembra quasi un’ammissione di colpa non necessaria, che compie il proprietario, l’ospitalità impagabilmente onesta che offre sia al lettore sia al Pontiggia protagonista del ricordo, è pari al testo dello scrittore, anch’esso completamente onesto e donato a chi lo riceve per godere di un’immagine semplice eppure piena di significato, come la parola che Pontiggia sceglie di usare per parlare a noi. Così, con un’eleganza consapevole e difficilmente imitabile, il ricordo di un’osteria senza l’acca davanti diventa un manifesto poetico.

È importante sottolineare il carattere di ricordo che dà origine al racconto, il quale diventa qui essenziale quanto ciò che al suo interno viene raccontato. La bontà del proprietario non è stata dimenticata, ma anzi pone le fondamenta non solo del ricordo dell’osteria e del cibo mangiato, ma anche del territorio in cui la rimembranza è contestualizzata; non a caso subito dopo l’azione di ricordare, lo scrittore riporta il luogo dove questa ha avuto luogo, ovvero “nel grossetano”. Pontiggia nella naturalità del ricordo che stimola il racconto racchiude un suggerimento inconsapevole di cui ora siamo costretti a cogliere il significato: in un paese preso di mira dal turismo di massa come il nostro, non bisogna dimenticare che essere degli ospiti onesti verrà calorosamente ricordato. Quando pensiamo al nostro territorio, ma forse più in generale ai gesti quotidiani che compiamo, sarebbe bello potersi concentrare sull’onestà e la lealtà che trasmettono, cosicché chi ne prende parte insieme a noi, nel momento di riportarlo alla memoria, avrà come prima parola sulla punta della lingua: “Amo”.

Da grande appassionato di enologia, Pontiggia usa spesso la metafora del vino, soprattutto nelle pagine saggistiche legate al tema della lettura. Se “spiegare a un non lettore perché il libro attrae è come spiegare a un astemio perché il vino rallegra”, nel già citato Prima persona compare anche un paragrafo intitolato “Assaggiatore di libri”, in cui il lettore che si deve pronunciare sulla qualità di un’opera letteraria si trasforma in un assaggiatore che assapora un vino.