Luciano
Bianciardi

Grosseto

Luciano Bianciardi è sicuramente il più importante autore cui la Maremma ha dato i natali. Scrittore, giornalista, bibliotecario, insegnante, traduttore, Bianciardi è stato un intellettuale a tutto tondo che ha saputo osservare e denunciare le contraddizioni della società italiana del dopoguerra e del boom economico, sempre con lucidità e una buona dose di ironia.

Nacque a Grosseto il 14 dicembre 1922 in una famiglia della media borghesia: il padre era cassiere di banca e la madre maestra elementare. Dopo il liceo classico a Grosseto, si iscrisse a lettere e filosofia all’Università di Pisa, ma dovette interrompere gli studi nel 1943 per il servizio militare, vivendo eventi drammatici come il bombardamento di Foggia e lo sbandamento. La sua formazione antifascista lo portò ad aderire al Partito d’Azione nel 1945. Riprese gli studi alla Scuola Superiore Normale di Pisa, laureandosi nel 1947 con una tesi su John Dewey. Dopo lo scioglimento del Partito d’Azione, si orientò verso una sinistra indipendente, influenzato sia dal pensiero di Gramsci sia dalla cultura americana, che studiò approfonditamente. Tornato a Grosseto, insegnò filosofia al liceo classico “Carducci-Ricasoli” e riorganizzò la biblioteca comunale Chelliana, devastata dai bombardamenti e dall’alluvione del 1944. Bianciardi esordì come giornalista e scrittore negli anni Cinquanta, pubblicando articoli su varie riviste e quotidiani come la Gazzetta di Livorno o l’Avanti!. Il suo impegno per le tematiche classiste emerge in lavori come I minatori della Maremma (1956), scritto con Carlo Cassola, un’inchiesta sociologica sulle difficili condizioni dei lavoratori minerari. Questo periodo fu tuttavia segnato dalla tragedia di Ribolla nel 1954, dove un’esplosione nel pozzo Camorra causò la morte di 43 operai. L’evento lo colpì profondamente, diventando simbolo delle difficoltà e delle sconfitte del movimento operaio.

In quello stesso anno si trasferì a Milano, dove entrò a lavorare nella casa editrice Feltrinelli come redattore fino al 1957, quando fu licenziato. Continuò a guadagnarsi da vivere traducendo, attività che lo portò a rendere in italiano autori importanti come Steinbeck, Faulkner e Kerouac. Divenne noto per la traduzione dei Tropici di Henry Miller e la sua pionieristica introduzione alla Beat Generation. A Milano, la disillusione verso il neocapitalismo e la realtà industriale si tradusse nella sua produzione narrativa: il romanzo Il lavoro culturale (1957) riflette sull’eclissi delle speranze giovanili nate durante la Resistenza, mentre L’integrazione (1960) è un satirico resoconto delle spersonalizzanti dinamiche dell’industria editoriale milanese. La sua opera più celebre, La vita agra (1962), fonde autobiografia e denuncia sociale. Racconta il rifiuto di un intellettuale di integrarsi nell’industria culturale, alle prese con le difficoltà economiche e l’isolamento esistenziale. Il protagonista, alter ego dello stesso Bianciardi, rappresenta il rifiuto delle leggi del sistema produttivo e l’affermazione di un’irriducibile autenticità, restituendo una feroce critica alla società del boom economico italiano. Tra il 1962 e il 1969, Bianciardi si dedicò anche alla scrittura di sceneggiature e a collaborazioni giornalistiche. Partecipò a opere storiografiche sul Risorgimento, come Da Quarto a Torino (1960), e romanzi ispirati a tematiche risorgimentali, tra cui La battaglia soda (1964) e Aprire il fuoco (1969). Quest’ultimo, ambientato in una Milano contemporanea che rivive le sue Cinque Giornate, fonde storia e fantasia, offrendo una riflessione sulla sconfitta delle aspirazioni ideali. Morì a Milano nel 1971 a causa della sua dipendenza dall’alcol.

Il primo romanzo di Luciano Bianciardi, Il lavoro culturale, trova la sua ambientazione nella città natale dell’autore, Grosseto, che viene celata dietro un’evocativa e apparentemente distante denominazione: Kansas City. Con questa scelta, ispirata da una felice intuizione dell’amico Carlo Cassola, Bianciardi trasforma Grosseto nel simbolo di una comunità desiderosa di risorgere dalle ceneri della guerra. Il nome “Kansas City” non è casuale: rappresenta l’idea di un luogo che si prepara a reinventarsi, abbracciando una modernità ancora incerta ma gravida di promesse. In questo contesto provinciale, intriso di attese e fermenti, prende forma un mondo che aspira alla ricostruzione culturale e civile. «La provincia doveva essere un po’ tutta così, fosse America, Russia, o la nostra città. La provincia, culturalmente, era la novità, l’avventura da tentare. Uno scrittore dovrebbe vivere in provincia, dicevamo: e non solo perché c’è più calma e più tempo, ma anche perché la provincia è un campo di osservazione di prim’ordine. I fenomeni, sociali, umani e di costume, che altrove sono dispersi, lontani, spesso alterati, indecifrabili, qui li hai sottomano, compatti, vicini, esatti, reali».

Bianciardi esplora, con acutezza e ironia, la fervida energia idealistica e le ingenue aspirazioni della nuova generazione di intellettuali italiani nel dopoguerra. Al centro del romanzo c’è la storia di chi, come lui stesso, si impegnò per trasformare la cultura in un’esperienza accessibile a tutti, per riportare alla gente un senso di comunità e un desiderio di crescita collettiva. Questo slancio verso il rinnovamento culturale è contrapposto con una vena polemica alle biblioteche tradizionali, concepite come mere stanze della conservazione, luoghi dove il sapere giaceva mummificato anziché dinamicamente diffuso. Una biblioteca, per Bianciardi, non deve essere un tempio chiuso, ma uno spazio vivo che si apre al pubblico. Una biblioteca moderna deve infatti «proporsi di andare incontro al lettore, invitarlo alla lettura, presentandogli il libro aperto», non come prima, quando il vecchio bibliotecario, scrive Bianciardi, «considerava la biblioteca un suo luogo privato e cacciava con grandi urlacci i ragazzini del ginnasio che […] chiedevano di poter dare un’occhiata alla riviste».

Nell’idea di Bianciardi, la biblioteca diviene molto più di un archivio di volumi polverosi: è un laboratorio culturale. Questi ideali si concretizzano nella sua attività di direttore della storica Biblioteca Chelliana di Grosseto. La biblioteca comunale era stata fondata nel 1860 dal canonico Giovanni Chelli, sacerdote di origini senesi dagli ideali repubblicani, che Bianciardi ricorda nel romanzo come una «singolare figura di prete garibaldino, illuminista e guerrazziano», commentando che «Roma lo aveva sospeso a divinis sia per le sue idee, sia perché fu sorpreso, una sera, in un certo locale, dove ballava travestito da sergente della guardia nazionale». Chelli aveva dato vita al primo nucleo della biblioteca con circa 9.000 volumi, arricchiti da donazioni e contributi personali, accompagnati da una collezione di oggetti d’arte e reperti che costituirono il primo antiquarium archeologico. Nonostante gli sforzi del sacerdote nella lotta contro l’analfabetismo, la biblioteca attraversò molte difficoltà, trovandosi a fronteggiare problemi economici, politici e organizzativi che ne compromisero spesso la stabilità. Nel tempo, l’istituzione subì perdite e spoliazioni, e la precarietà divenne una costante. La situazione peggiorò ulteriormente durante la seconda guerra mondiale: il palazzo che ospitava la biblioteca fu distrutto dai bombardamenti, e il materiale librario rimasto subì gravi danni a causa di un’alluvione. Nel 1948, Luciano Bianciardi, con il supporto di altri volontari, aveva iniziato il recupero dei libri sommersi dal fango, armato di uno “spazzolino di penne di struzzo”. L’anno seguente era stato assunto dalla biblioteca e poi nominato direttore nell’autunno del 1951.

Da direttore promosse cineforum, organizzò la Settimana del Libro, insieme a conferenze che ospitavano alcune delle personalità intellettuali più rilevanti del tempo, come Carlo Cassola, Giuseppe Dessì, Aldo Capitini e Guido Aristarco, ma anche Carlo Salinari, Carlo Montella e molti altri. Uno dei progetti più noti della direzione Bianciardi fu l’istituzione del bibliobus, un servizio che portava i libri direttamente nelle campagne, superando i limiti geografici di una zona ancora caratterizzata da difficoltà di spostamento e isolamento. Si trattava di un furgone Lancia Ardea, appositamente modificato e allestito all’interno con scaffalature capaci di ospitare circa un migliaio di volumi di piccolo formato. Inoltre, furono istituite filiali della biblioteca a Batignano, Istia d’Ombrone, Montepescali e successivamente anche a Braccagni e Marina di Grosseto. Durante i viaggi del bibliobus nella pianura, Bianciardi, che non era in possesso della patente, si faceva accompagnare da qualcuno. Come ricorda Cassola, accompagnatore occasionale in alcune di quelle “gite”: «si partiva alla mattina, giravamo nei paesi con questi libri, ed era un modo per bighellonare da un paese all’altro, conoscere tanta gente. A pranzo si scoprivano le trattorie». Con un pizzico di ironia, Bianciardi aveva coniato anche lo slogan: «Questo è il bibliobus Chelliana che viaggia una volta a settimana».