Corrado
Alvaro

Porto Santo Stefano

Lo scrittore Corrado Alvaro nasce a San Luca nel 1895, un piccolo paese sul versante ionico della Calabria, ai piedi dell’Aspromonte, luoghi che fanno da sfondo alla sua opera più famosa, Gente in Aspromonte (1930).

Primo di sei figli, la sua infanzia è serena ed è il padre a occuparsi della sua istruzione fino al 1906, quando, intuite le doti del figlio, decide di iscriverlo presso un rinomato collegio gesuita vicino Frascati, famoso per la sua tradizione grecista. È forse questo primo attento contatto con la cultura umanistica a instillare in lui il seme delle lettere che poi continuerà a coltivare per tutta la vita.

La passione per la poesia lo coinvolge a tal punto da rompere il silenzio e iniziare a scrivere i primi racconti e i primi versi, ma gli costa anche l’espulsione poiché sorpreso a leggere testi proibiti dalla Chiesa cattolica come l’Intermezzo di rime di Gabriele d’Annunzio e l’Inno a Satana di Giosuè Carducci: viene quindi cacciato dal collegio. Obbligato a concludere gli studi ginnasiali altrove, si sposta da Villa Mondragone a un collegio in provincia di Terni, per poi proseguire gli studi iscrivendosi al liceo Galluppi di Catanzaro. Nello stesso anno esordisce col libretto Polsi nell’arte, nella leggenda e nella storia, dedicato alla madre e firmato “Corrado Alvaro. Studente liceale”.

Appena l’età glielo permette, inizia a girare l’Italia, ma ha giusto il tempo di vedere Roma e Firenze, perché, con l’entrata in guerra dell’Italia, risponde alla chiamata alle armi e raggiunge il reparto perugino a cui è stato assegnato. Ferito nei pressi di San Michele del Carso, nel settembre del 1916 è a Roma, dove comincia a collaborare al Resto del Carlino e, quando ne diventa redattore, si trasferisce a Bologna. La carriera giornalistica prosegue: nel 1919 si trasferisce a Milano come collaboratore del Corriere della Sera – mentre consegue la laurea in Lettere all’Università di Milano – e nel 1921 diventa corrispondente da Parigi de Il Mondo di Giovanni Amendola. In questa città conosce scrittori come Jacques Rivière e legge Proust, di cui è il primo traduttore in lingua italiana, anche se solo di un breve passo.

Negli anni di affermazione del regime, è tra i firmatari del manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce del 1925, e l’ardore nella sua opposizione è talmente rumoroso da procurargli prima un’aggressione diretta alla sua persona, e poi l’inclusione nelle liste di proscrizione, che gli impediscono di poter scrivere sui giornali. La Stampa gli propone allora di pubblicare senza firma, ma questa copertura ha breve durata. Alvaro non vuole ancora abbandonare l’Italia, quindi resiste rifiutando le offerte degli amici di riparare a Parigi, e nel frattempo inizia ad avvicinarsi alla prosa con il romanzo sperimentale L’uomo nel labirinto (1926) in cui è evidente l’influsso stilistico del raffinato ambiente di Solaria, rivista letteraria fiorentina diretta da Carocci.

Nel 1928 si vede però costretto a trasferirsi a Berlino per poter continuare a lavorare; in Germania conosce Thomas Mann, Herman Hesse, Walter Benjamine Bertolt Brecht, di cui traduce L’opera da due soldi insieme ad Alberto Spaini. Forse anche grazie agli stimoli nati da questi incontri, nel 1929 pubblica la raccolta di racconti L’amata alla finestra, opera ben accolta ma sempre ostacolata dal regime.

Nel 1930 torna in Italia e lo stesso anno pubblica il suo libro più famoso: Gente in Aspromonte, racconto lungo che fonde la descrizione realistica delle condizioni di vita contadina nelle aspre terre calabresi con la rievocazione nostalgica di un favoloso mondo arcaico. Non manca nel volume l’impegno civile ma il tono predominante è lirico e magico, tanto che i modi naturalistici sono riletti alla luce delle esperienze novecentesche europee. Sono, in questi anni, le amicizie ritrovate con Luigi Pirandello e Margherita Sarfatti a permettergli di convivere col regime e attenuare i toni critici verso il fascismo. Continua ora più apertamente la sua collaborazione con La Stampa, per cui lavora come inviato e da cui nascono numerosi volumi di viaggio che gli valgono quasi la stessa fortuna dei romanzi.

Dopo il secondo conflitto mondiale, prosegue sia l’attività giornalistica sia quella di scrittore: è nominato Direttore del Giornale radio nazionale della Rai, prosegue la propria collaborazione con il Corriere della Sera, fonda il sindacato nazionale degli scrittori, e nel 1951 vince il Premio Strega con Quasi una vita, un diario intellettuale privato. In questi anni si impegna nella pubblicazione di reportage di viaggio, di una trilogia narrativa ancora ambientata in Calabria (Memorie del mondo sommerso), del romanzo fantastico Belmoro (postumo, del 1957) e ancora di novelle e opere teatrali. Alvaro infatti esprime le migliori qualità nella forma breve: racconti, appunti di viaggio, diario intimo. A partire da un fondo di realismo e di tradizione meridionale, la sua scrittura fa propri i modi dell’immaginazione, del favoloso: siamo a cavallo tra la narrazione propriamente detta e la prosa evocativa, e più che le situazioni contano le atmosfere. Colpito da un tumore, muore a Roma nel 1956.

È una raccolta di testi di viaggio a legare Alvaro alla Maremma: Itinerario italiano (1933). Il genere del reportage è a lui molto noto, come ad altri scrittori degli anni Trenta tra cui Ojetti, Comisso e Gadda. Come inviato de La Stampa, Alvaro compie numerosi viaggi in Italia e all’estero, che trasporta poi nelle pagine di Viaggio in Turchia (1932), Itinerario italiano (1933), I maestri del diluvio. Viaggio in Russia (1935). In Itinerario italiano, lo scrittore racconta il proprio percorso lungo le strade di provincia della penisola – dalla Bassa Ferrarese alla Maremma, dall’Abruzzo alle terre napoletane, fino alla Calabria –, e tra le tappe compare l’Argentario, raccontato attraverso i lavoratori per eccellenza del luogo: i pescatori di Porto Santo Stefano. Dalle loro parole – in particolare da quelle di Loffredo, proprietario del motopeschereccio Montargentaro, il più famoso di tutta la zona – emergono le contraddizioni di un mestiere sospeso nel tempo, che nemmeno le innovazioni tecnologiche, come i 120 cavalli del motopeschereccio, riescono a rendere meno rischioso e così vicino a una primordiale sopravvivenza piuttosto che a un lavoro come un altro.

Ogni mare del mondo ha le sue correnti, le sue insidie, i suoi porti sicuri e un pescato unico; così, anche gli uomini che da esso dipendono traggono la loro individualità e cultura dal mare a cui appartengono. È a questo scopo che Alvaro nello scrivere il reportage si lega alle profondità della Maremma e del Monte Argentario, perché senza mettere in risalto la fitta rete di corrispondenze fra i pescatori e il loro territorio la loro storia non sarebbe autentica e il lettore non avrebbe l’opportunità di scorgere nemmeno per un attimo l’intimità di questi uomini. Con questo scopo, il racconto inizia descrivendoci il contesto e l’origine del movimento dell’uomo verso il mare, che nel caso dell’area grossetana fu causato dalla morte di centinaia di vigneti per colpa della fillossera, un insetto che si nutre delle radici della vite e che privò molti italiani del sostentamento su cui non solo avevano fatto pieno affidamento per anni, ma su cui avevano investito per generazioni. È la necessità, la fame che spinge l’uomo in mare e tra le sue insidie, ma tra i pescatori di Porto Ercole sembra che l’abitudine abbia col tempo ammansito molti pericoli della navigazione. Lo capiamo da come Sabatino Ferdinando, capopesca, non solo si ostina a rimanere in mare finché il suo pescato non ha coperto le spese, ma da come conosce il mondo attraverso correnti e porti, da come incredibilmente gestisce ogni imprevisto tramite cambi di rotta e ignora fatica e mare mosso.

Il rapporto speciale degli uomini di questo breve racconto con il mare è condiviso dalla Maremma stessa, che viene descritta non tramite il suo entroterra, ma come se nel contesto contasse di più il suo rapporto col Tirreno; è lo stesso Alvaro che ce ne dà un suggerimento parlandone così: “Steso in terra come un satellite dell’Elba vicina, della Corsica e della Sardegna lontane, v’è la grande distessa della Maremma”.

I pescatori vengono descritti come uomini forti, generosi e temerari, pronti al sacrificio per portare a casa almeno “quindici quintali” di pescato. All’interno della barca sono tutti familiari di sangue, anche l’ultimo arrivato, a cui per tradizione spetta il compito di sfamare i suoi compagni e non di pescare. La loro intimità permette una generosità semplice, in virtù di una primordiale capacità di coesistere lontana dall’artificiosa educazione mondana: ne è un esempio il dettaglio del tabacco: “(il capitano) si arrotolava una sigaretta da un pacchetto di trinciato che poco prima avevo veduto sul tavolo, a cui, come a un bene comune, avevano attinto gli uomini dell’equipaggio”. Vivono a strettissimo contatto fisico, nei momenti di mare mosso si spintonano e si colpiscono a vicenda. E oltre all’intimità fisica, quella mentale permette loro di convivere nella naturalezza di un branco con un unico destino.

In cosa sta lo sguardo critico di Alvaro? Dove si distingue la sua narrazione da un normale resoconto di una giornata di pesca? Lo scrittore riesce, tramite il distacco stesso imposto dal reportage che mette in risalto la distanza fra l’occhio che osserva e l’oggetto osservato, a mostrare la differenza che esiste tra i pescatori e un intruso borghese come lui nel rapporto col mare. Nello stile di Alvaro le descrizioni degli eventi di mare di cui lui è testimone appaiono come impressioni: lui non è abituato al mare e i suoi sensi percepiscono il reale sotto forma di immagini quasi romantiche, agghindate dal misticismo provocato in lui dalla mancanza di conoscenza. Quando il narratore abbandona il peschereccio, è perché non è pronto ad affrontare due giorni di mare ancor più mosso: diventa allora più che evidente una distanza irrecuperabile fra il suo mondo, molto più simile al nostro, e quello molto più naturale e combattivo dei pescatori di Porto Ercole.

Qualcosa però è rimasto della mentalità di quei pescatori del 1933, ovvero la preoccupazione per il futuro del territorio che ci sfama e ci ospita. Scrive Alvaro: “«Figuratevi,» mi disse il capopesca Sabatino, «che l’altro giorno, quando voi dovevate venire con noi, tirammo su le reti con un gran peso. Erano blocchi di asfalto di qualche nave che s’era disfatta del carico»”. Ma non è solo questione di inquinamento, bensì anche di salvaguardia della tradizione dei luoghi e di convivenza positiva con essa: i pescatori di Alvaro si chiedono infatti se la pesca con quelle reti così grandi, tanto grandi da ribaltare i fondali, non sia pericolosa. Allo stesso modo, si accorgono che nei loro mari i pesci ormai erano piccoli, non avevano il tempo di raggiungere l’età adulta. Forse, non vivendo più a contatto diretto con la realtà della nostra terra, abbiamo dimenticato l’importanza di curarla affinché questa possa aiutare noi. Che questo racconto sia allora un messaggio in bottiglia ritrovato in un porto maremmano, un avvertimento inconsapevole, letto per ricordarci di accudire il nostro mare.