Andrea da
Grosseto

Grosseto

Andrea da Grosseto rappresenta una figura enigmatica nel panorama letterario medievale. L’unico autore grossetano del Medioevo ad avere lasciato traccia della propria opera rimane avvolto nel mistero per quanto riguarda la sua vita e il suo contesto personale e culturale. Nonostante i numerosi tentativi compiuti da studiosi e appassionati per gettare luce su questo illustre, quanto sfuggente, personaggio del XIII secolo, le informazioni a nostra disposizione sono poche e frammentarie. I soli dati biografici certi si limitano a ciò che lo stesso Andrea ci tramanda nei colophon dei suoi scritti, e cioè che nel 1268 egli si trovava a Parigi, impegnato nella traduzione dal latino al volgare dei tre Trattati morali del giurista Albertano da Brescia, opere già popolari all’epoca e riconosciute come testi fondamentali per l’edificazione morale e civile, e che si firmava come Andrea da Grosseto, nello specifico «translatato et volgarizzato da Andrea da Grosseto in de la cità di Parigio».

La traduzione dei trattati, infatti, è l’aspetto più rilevante della sua attività che ci è pervenuto. I testi tradotti – Della consolazione e dei consigli, Dottrina del tacere e del parlare, e Dell’amore e della dilezione di Dio e del prossimo e delle altre cose (mutilo) – trattano temi di filosofia pratica, etica e buon governo, elementi che testimoniano l’interesse per un sapere accessibile e utile al vivere quotidiano. Questi trattati avevano conosciuto una rapida e vasta diffusione in Europa, tanto che furono presto tradotti nelle principali lingue romanze, guadagnandosi una duratura fortuna presso un pubblico variegato. La traduzione di Andrea da Grosseto assume particolare rilievo per due motivi: da un lato, rappresenta la prima versione italiana di tali opere, risalente a pochi decenni dopo la morte del loro autore; dall’altro, rivela l’uso di un volgare più naturale e snello rispetto a quello che caratterizzerà la produzione toscana dei secoli successivi.

L’importanza dei testi di Albertano era già evidente nella loro epoca, ma l’impresa traduttoria del grossetano conferisce un ulteriore valore simbolico al contesto culturale e linguistico italiano del XIII secolo. La scelta di Andrea di cimentarsi in quest’opera di traduzione evidenzia una certa consapevolezza del potenziale della lingua volgare, in un momento storico in cui l’italiano era ben lontano dall’essere codificato e uniformato. La traduzione dei testi albertaniani di Andrea fu realizzata a Parigi, una città che, nel XIII secolo, rappresentava già in Europa un centro culturale e intellettuale di eccellenza. Parigi era il crocevia di mercanti, accademici, artisti e politici, attratti dalle grandi fiere della Champagne o dall’imponente Università. L’attività traduttoria nell’area francese riflette un rapporto stretto tra gli intellettuali toscani e i circoli culturali di oltralpe. A distanza di dieci anni dalla versione di Andrea, infatti, Soffredi del Grazia, notaio originario di Pistoia, produsse un’altra traduzione italiana dei medesimi trattati, anch’essa realizzata in ambiente parigino (più precisamente a Provins). Questo dato ha spinto numerosi studiosi a indagare sullo scenario socio-culturale che rendeva la Francia una destinazione privilegiata per gli eruditi toscani del periodo. Nel caso di Soffredi, la sua presenza a Parigi è facilmente comprensibile alla luce della sua professione di notaio, legata ai commerci e alle istituzioni economiche transalpine.

Diverso è invece il caso di Andrea, la cui attività o professione rimane del tutto oscura. Alcune ipotesi lo descrivono come un religioso, forse francescano, considerando l’interesse per le opere morali e l’associazione tradizionale di questo ordine a iniziative educative e di divulgazione. Un’altra teoria, decisamente meno credibile, suggerisce la sua appartenenza a una famiglia maremmana di zoccolanti dal cognome “Bento”, un errore attribuibile alla confusione con un omonimo “Beato” vissuto però nel Quattrocento. In generale, tali congetture si sono rivelate poco solide, se non del tutto fantasiose, facendo sì che Andrea continui a rimanere avvolto nel mistero. Tra gli spunti più interessanti per contestualizzare la presenza di Andrea in un centro cosmopolita come Parigi c’è la possibile influenza della corte di Federico II di Svevia sulla cultura maremmana. È noto che l’imperatore soggiornò a Grosseto in varie occasioni tra il 1243 e il 1246, quando aveva eletto la città a sede di un vicario imperiale, al fine di sfruttare al meglio la sua localizzazione presso le principali rotte stradali e marittime della penisola (e, si dice, anche per praticare l’amata arte della falconeria). Proprio a Grosseto, nel marzo 1246, gli avversari politici tentarono di colpirlo con una congiura, tempestivamente sventata dal sovrano che dovette lasciare precipitosamente la città maremmana. Questo collegamento tra la corte federiciana e il letterato grossetano, per quanto affascinante, non è dimostrato da alcuna prova, ma rappresenta un’ipotesi suggestiva che inquadra Andrea come un potenziale prodotto di quel particolare fermento cittadino.

La riscoperta della figura di Andrea da Grosseto e delle sue opere è un merito della ricerca ottocentesca. Nel XIX secolo, il chimico ed erudito modenese Francesco Selmi si imbatté nei manoscritti conservati presso la Biblioteca Magliabechiana di Firenze, e, intuendone la portata storica, ne curò la pubblicazione nel 1873. Selmi riconobbe nell’opera del grossetano un primo tentativo di costruzione di una prosa italiana, tanto da definirlo «il più ragguardevole documento in prosa letteraria della nostra lingua». In particolare, l’erudito si basava su tre motivazioni: la data certa del 1268, l’uso di un linguaggio italiano privo di ridondanze e la volontà dell’autore di utilizzare un linguaggio nazionale, definito “italico”. Quest’ultima osservazione, tuttavia, si è rivelata più un’enfasi patriottica che una realtà linguistica: gli studiosi moderni, tra cui Cesare Segre, hanno evidenziato l’assenza di elementi stilistici o lessicali che possano confermare tale intenzione. Tuttavia, l’adozione del volgare rimane significativa, dimostrando un desiderio pionieristico di affrancarsi dalla rigidità del latino accademico e di parlare una lingua più immediatamente comprensibile.

La città di Grosseto ha accolto con entusiasmo questa riscoperta, scegliendo di celebrare Andrea come simbolo del suo passato letterario e culturale. Sebbene l’oscurità biografica che lo circonda rimanga intatta, ciò non ha impedito ai suoi concittadini di valorizzarne l’eredità. Una targa posta sotto il loggiato del municipio e una statua in bronzo rendono omaggio a quello che è ricordato come il «primo scrittore in lingua italiana». La scultura, posta in piazza Baccarini di fronte al Museo archeologico e d’arte della Maremma, fu voluta dal professor Oscar Marrone e inaugurata nel 1974. L’artista Arnaldo Mazzanti, incaricato della sua realizzazione, dichiarò di essersi ispirato ai tratti distintivi della gente di Maremma per definire la fisionomia del letterato. Andrea è rappresentato seduto, con una carta in mano, intento a leggere i suoi scritti. Il volto è essenziale, leggermente scavato, con lineamenti netti e pronunciati, pensati dall’artista per evocare la rude bellezza e la severità della Maremma. Indossa una tunica dotata di cappuccio e fermata in vita da un cordone. L’abito, volutamente ambiguo, non permette di stabilire se si tratti di un saio francescano – seguendo la tradizione che vuole Andrea un monaco – o di un semplice indumento di uso comune. Sul basamento della statua però non ci sono dubbi. Qui una targa recita: «Andrea da Grosseto. Primo scrittore in lingua italiana. Dottore a Parigi».

Questa celebrazione popolare riflette il desiderio di rivendicare un’identità culturale e storica attraverso una figura che, pur poco conosciuta, rappresenta un simbolo di innovazione e allo stesso tempo permette di inserire un grossetano nel canone della letteratura, in un tentativo orgoglioso di riconoscere Andrea come un antesignano della prosa italiana. Seppure limitata nel corpus e nel contesto storico, l’opera di Andrea da Grosseto è per certo un documento prezioso che contribuisce a comprendere le origini e lo sviluppo del volgare come lingua letteraria. Questo processo, avviato in un’epoca di intensi scambi culturali e commerciali, rappresenta una tappa fondamentale nel cammino verso la lingua italiana moderna.